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Harar
Harar, situata nell’est del paese, vicino al confine con la Somalia e a metà strada tra la capitale e lo sbocco al mare nel Gibuti, è stata fino ai primi anni del secolo scorso un centro strategico di rapporti commerciali con la penisola Araba e lo Yemen. Dopo la costruzione, nel 1902, di una ferrovia Addis Abeba - Gibuti che la tagliò fuori, la sua rilevanza commerciale fu notevolmente ridimensionata.
Questa città, detta anche la città “proibita”, è per i musulmani la quarta città santa dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme, un’enclave musulmana in territorio cristiano, che con le sue 82 moschee e i suoi 102 luoghi sacri (santuari, tombe e il cimitero islamico) figura tra i patrimoni dell’umanità indicati dall’Unesco.
Harar è luminosa e bianca; di incredibile fascino sembra più una città araba che africana. La città vecchia è cinta da bianche mura del XVI secolo, alte cinque metri e si sviluppa in un dedalo di vicoli colorati dove, in un tripudio di colori e odori, si svolgono affascinanti mercati di strada. Le donne harari vestono abiti dai colori vivaci (e veli se musulmane), e vendono le loro merci nei vicoli, trasportandole sulla testa.
Ad Harar, alla fine del XIX secolo, si rifugiò e visse, commerciando armi e caffè, Arthur Rimbaud, a cui è dedicata una casa museo. È probabile che proprio al soggiorno del poeta francese (durato quasi un decennio) sia da attribuire l'uso della parola farenjj (da french), usata dalle tribù più isolate per indicare ogni individuo di pelle bianca.